giovedì 17 marzo 2011

Tricolore


Quanto è bella Torino con migliaia di tricolori che pendono da mille e mille balconi.

In passato il tricolore veniva esposto solo in occasione di eventi sportivi quali il mondiale di calcio.
Mano a mano che l'Italia avanzava verso la finale, aumentavano le bandiere esposte. Era un gesto come a voler indicare: "io ci credo nella vittoria". I più ottimisti addirittura esponevano bandiere celebrative di una vittoria che doveva ancora essere conquistata.

Oggi le bandiere celebrano i 150 dell'Unità d'Italia.
Percorrendo le strade mi godo questo spettacolo di colori, ma mi chiedo che significato abbia per ognuno esporre il tricolore. Cosa c'è dietro la scelta di fare o non fare un gesto simbolico e pubblico come porre una bandiera? Da quello che ho colto mi pare che ci sia un elemento comune a tutti: l'orgoglio di essere Italiani. Magari un orgoglio amaro, ma pur sempre sincero. 
Essere orgogliosi ed appartenere ad una comunità è un atto naturale. L'uomo è un animale sociale per cui necessita di appartenere ad una comunità, ad una tribù. Oggi, come da qualche secolo, lo stato-nazione assurge a ruolo di "comunità immaginaria". Oggi le "comunità immaginarie" permettono ad ognuno di appartenere ad una comunità, di soddisfare quel bisogno di essere un animale sociale. Perciò essere orgogliosi di appartenere ad una nazione è prima di tutto un atto vitale. Certo si può scegliere di non riconoscersi in una "comunità immaginaria", ma l'atto stesso di non scegliere ci inserisce in un'altra "comunità immaginaria": politica, religiosa o semplicemente di anti-qualcosa. In una "comunità immaginaria" tutte le persone appartenenti a quel gruppo non interagiscano tra loro faccia a faccia, ma necessitano di condividere un'idea comune, ad esempio pensarsi italiani.

Perché uno stato esista occorre che i suoi abitanti ci credano, e perché lo facciano il potere politico deve convincerli. Sono i nazionalismi che creano le nazioni e non il contrario, anche perché, come afferma Ernest Renan,"l'esistenza di una nazione è un plebiscito quotidiano".
 (Marco Aime, Il primo libro di antropologia, 2008; Einaudi, pag. 175)



Per cui esporre il tricolore è un momento, fondamentale, dell'esistenza di una nazione. Quindi è un gesto fortemente politico, spesso anche in contrasto a chi vuole dividere questo paese. Un momento di appartenenza, ma anche di scontro. In particolare a Torino è piuttosto comune un sentimento anti-leghista. La stessa presenza di un presidente regionale della Lega viene vissuto come un dominio "straniero". Quindi il tricolore sul balcone marchia un territorio, lo difende.


la bandiera di Andrea

Il tricolore esposto con orgoglio è anche un gesto gioioso, di festa appunto. Non colorato di verde bile dell'egoismo, ma di verde speranza che questo paese ce la faccia. La speranza che credo sia rappresentata bene dalla piccola bandiera fatta da mio figlio all'asilo nido.

W l'Italia! W la Repubblica!


Bibliografia
Marco Aime, Il primo libro di antropologia, 2008; Einaudi

lunedì 7 marzo 2011

La magia del Toro


A Torino scorre sangue granata. 

Il Toro è una contrada, non un club. Il senso di appartenenza alla maglia granada vive oltre il senso della competizione, oltre la rivalità in campo e fuori, oltre il calcio. Partecipare ad un evento granata è vivere un'esperienza popolare che va ben oltre ad un evento sportivo: un'esperienza magica (nel significato antropologico del termine).
La carica e partecipazione che hanno i tifosi del Toro durante la partita è più emotiva, profonda, un riporre in un luogo metastorico la propria fede/identità, un vivere lo sport come un'occasione di de-storicizzazione. 
Le esperienze di de-storicizzazione sono spesso riti religiosi o magici. Occasioni per riporre in un luogo metastorico il negativo attuale o possibile. Non a caso quella granata è l'unica tifoseria che ha organizzato una processione (a Superga). 
Questo pone dei limiti tecnici al tifoso del Toro. Ha uno scarso sguardo tecnico sulla partita e certamente non estetico; ma egli valuta la tensione ed il valore guerresco del giocatore e tanto meglio se per vincere bisogna soffrire.

La Magia del Toro

Ho sempre trovato fascino per questo animale. 
Da millenni diverse popolazioni del Mediterraneo lo hanno assunto a simbolo e protagonista; ancora oggi sopravvive la pratica della Tauromachia. Chi conosce la Tauromachia comprende che uccidere il toro in una corrida è un atto di amore profondo per l'animale (eros e thanatos). Puro erotismo. Il toro (animale) possiede una forza simbolica enorme, pari se non superiore alla forza fisica dell'animale stesso.

Quando dico fascino intendo fascinazione.

Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l'autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta.
(Ernesto De Martino, Sud e magia, 1959; Feltrinelli, p15)


Non a caso questa città e questa squadra ha come simbolo un toro.
Certo il tifoso granata è affascinato dal Toro, ne è dominato.
Per questo motivo il tifoso del Toro ha bisogno di de-storicizzare, di compiere riti, di riferirsi ad un mito.
De-storicizzare significa costruire un orizzonte, un momento di arresto, uno strumento di configurazione ed unificazione della varietà delle possibili crisi individuali.
Questo passaggio è fondamentale per risolvere la negatività attuale.
Un secondo momento protettivo della magia è nel mito.
Il mito assurge a rango di esempio risolutore. Un esempio in cui il negativo è già stato cancellato, quindi il negativo attuale è sempre cancellabile per il fatto che lo è stato in passato.
Per rivivere, interagire con il mito si utilizzano i riti. I rituali utilizzano una tecnica fondamentale del "così-come"

con la quale il "così" di un certo concreto aspetto negativo e di un desiderio corrispondente di eliminazione viene ritualmente riassorbito in una esemplarità mitica risolutiva
(Ernesto De Martino, Sud e magia, 1959; Feltrinelli, p104) 


Il mito cardine del Toro è certamente il Grande Torino. 
Il mito del Grande Torino possiede un suo Golgota: Superga. 
Il mito del Grande Torino possiede una sua chiesa: il Fila.
E soprattutto possiede tutte le stigmate per essere un mito di riferimento.

Quindi riassumendo la magia del Toro consiste in due momenti.
Il primo, esserne dominati e riporvi ed unire le proprie crisi individuali: essere tifosi granata.
Il secondo momento è risolvere le crisi individuali così-come il mitico Grande Torino: giocare e lottare per la vittoria. E se oggi la vittoria non arriva, non importa. Il fatto stesso di aver compiuto un rito ha reso attuale la vittoria del passato.



I dettagli dei riti granata meritano approfondimenti che analizzerò in futuro.
Inoltre ricercherò in altri angoli di Torino altri luoghi metastorici; luoghi vivi, che ancora compiono la propria funzione magica, e luoghi metastorici morti, che hanno esaurito la loro capacità risolutiva, ma di cui si conserva una traccia storica ed un ricordo.

Bibliografia
Ernesto De Martino, Sud e magia, 1959; Feltrinelli

sabato 5 marzo 2011

Giugno a Torino (omaggio a PPP)

Non è di giugno questa bianca aria
che il monumentale cimitero
riflette ed acceca con lampi di nero...

questo cielo su Torino
che piove rane e polvere
alla curva del Po, alle Alpine cime...

Scende una lucida acqua
che lava i nostri destini
nelle fabbriche abbandonate l'invernale giugno.

In esse c'è un rosso sbiadito,
la fine di un secolo in cui ci appare
polvere su acciaio il resto di un partito,
eco oramai sordo di una massa,
brivido elettrico della lingua sul metallo.

Gramsci,
in quel giugno in cui Torino fu ancora viva,
in quel giugno italiano
che dalle campagne alla città salì la rivolta dei nostri nonni ed umili fratelli,
già la tua grande testa delineava l'ideale che illumina

(non ancora per noi mai nati:
Antonio e PierPaolo morti ugualmente nell'eterno giardino)

questo coma.

Non puoi che rivivere in questa Torino, in quella piazza.
Indifferenza borghese ti è intorno.
E, secco,
solo ti giunge l'attrito di un tram,
lento al tramonto:
tra periferie nude
e baraccopoli sul fiume,
dove un campanello di uomini siede all'ingresso,
mentre tutto scorre.

venerdì 4 marzo 2011

Umile omaggio ad Antonio e PierPaolo

Non è di maggio questa impura aria
che il buio giardino straniero
fa ancora più buio, o l'abbaglia

Non è di giugno questa bianca aria
che il monumentale cimitero
riflette ed acceca

con cieche schiarite... questo cielo
di bave sopra gli attici giallini
che in semicerchi immensi fanno velo

con lampi di nero... questo cielo
su Torino
che piove rane e polvere

alle curve del Tevere, ai turchini
monti del Lazio... Spande una mortale
pace, disamorata come i nostri destini,

alla curva del Po, alle Alpine
cime... scende una lucida acqua
che lava i nostri destini

tra le vecchie muraglie l'autunnale
maggio. In esso c'è il grigiore del mondo,
la fine del decennio in cui ci appare

nelle fabbriche abbandonate l'invernale
giugno. In esse c'è un rosso sbiadito,
la fine di un secolo in cui ci appare

tra le macerie finito il profondo
e ingenuo sforzo di rifare la vita;
il silenzio, fradicio e infecondo...

polvere su acciaio il resto di un partito,
eco oramai sordo di una massa,
brivido elettrico della lingua sul metallo.

Tu giovane, in quel maggio in cui l'errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,

Gramsci, in quel giugno in cui Torino
fu ancora viva, in quel giugno italiano
che dalle campagne alla città

quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri - non padre, ma umile
fratello - già con la tua magra mano

salì la rivolta
dei nostri nonni ed umili fratelli,
già la tua grande testa

delineavi l'ideale che illumina

delineava l'ideale che illumina

(ma non per noi: tu morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell'umido

(non ancora per noi mai nati:
Antonio e PierPaolo morti ugualmente

giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. Noia

nell'eterno giardino) questo coma. Non puoi
che rivivere in questa Torino,
in quella piazza. Indifferenza

patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
solo ti giunge qualche colpo d'incudine
dalle officine di Testaccio, sopito

borghese ti è intorno. E, secco,
solo ti giunge l'attrito
di un tram, lento

nel vespro: tra misere tettoie, nudi
mucchi di latta, ferrivecchi, dove
cantando vizioso un garzone già chiude

al tramonto: tra periferie nude
e baraccopoli sul fiume, dove
un campanello di uomini

la sua giornata, mentre intorno spiove.

siede all'ingresso, mentre tutto scorre.


(Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, I)
(KP, Giugno a Torino, omaggio a PPP)

martedì 1 marzo 2011

Indiani: vivere-Torino e vivere-a-Torino



Torino è un archivio. Un atlante geografico. Molte città hanno vissuto e vivono il fenomeno della immigrazione, poche in maniera così fortemente simbolica come Torino. 
Una persona a Torino possiede due carte di identità.
La prima è quella cittadina, ufficiale, istituzionale: legata alla città. Un'identità rivendicata con orgoglio e metabolizzata nei gesti quotidiani. 
La seconda è un'identità della radice. Non necessariamente il luogo di nascita, ma anche il luogo di origine dei genitori: il paese o i paesi.
Dunque l'approccio culturale al cittadino di Torino è complesso. 

In fondo è per questo che esiste questo blog. Tracciare delle linee/vie da percorrere per decifrare una realtà complessa ha lo scopo di fotografare/conoscere quella realtà. Così come si conosce una città percorrendone le sue vie: consapevoli che quel percorso è parziale nello spazio e nel tempo. Nel tempo perché se si osserva/percorre una via non se ne può percorrerne contemporaneamente un'altra; nello spazio perché ogni percorso è un modo diverso di vedere la città.

Torniamo all'identità complessa del torinese. Il torinese non vive in maniera conflittuale questa sua molteplicità culturale, anzi paradossalmente è il torinese-torinese che è in difficoltà. Per questo motivo il torinese-torinese tende a recuperare origini lontane due o tre generazioni, tende a costruirsi una storia che abbia radici lontane. Il torinese ha bisogno di  lunghe radici, che percorrano molti chilometri. Non necessariamente profonde, bastano pochi e superficiali tratti culturali per rivendicarne la legittimità. Questo non impedisce fortunatamente la conservazione del dialetto, la sopravvivenza di un sentimento indigeno:  luogo immaginario che possiamo raffigurare come una riserva di pellerossa.
Dunque a Torino ci sono gli indiani. La riserva indiana del torinese non è in conflitto con il resto del mondo, né sull'orlo dell'estinzione. Anzi vive di scambi e nuovi ingressi: non è raro sentire parlare o storpiare il dialetto torinese da un immigrato. Bisogna, infatti, per vivere Torino che ognuno bagni un po' i propri panni nel Po. Questo vale per la lingua e per gli aspetti culturali. Chi vive Torino deve fare i conti con la sua natura, la sua storia. Qualsiasi sia il paese d'origine, un paesino del sud Italia oppure una capitale africana, ognuno deve misurare la propria storia con quella di questa città. Una volta posta la misura dovrà procedere alla procedura dell'innesto.
Non sempre l'innesto ha successo. Questo determina la formazione di due gruppi: chi vive-Torino e chi vive-a-Torino.

Questo è la mia prima strutturazione, la prima chiave di lettura per interpretare la natura culturale complessa del torinese e di Torino. Separare chi vive-Torino da chi vive-a-Torino mi pare uno strumento utile per demarcare i tratti culturali specifici di questa città da quelli globali. I primi infatti saranno presenti in uno solo dei due gruppi, i secondi saranno comuni ad entrambi.
In futuro non mi soffermerò solo su aspetti culturali specifici, è interessante e necessario esaminare anche la lettura/narrazione della cultura globale a Torino.